Conosci per caso una certa Ana?

Quant’è passato, da quando ne abbiamo parlato con gli amici, una settimana?
Ma non si parlava del disturbo, però, no.
Del disturbo se ne parla seriamente forse tre, quattro volte nella vita.
Se se ne parla di più è perché non la si è mai vissuta.
Chiunque l’abbia vista, direttamente o indirettamente, sa che non può essere raccontata, mai completamente.
Perché mai completamente si crede di averla capita.
Ci si porterà sempre dietro il dubbio di essersene persi qualche pezzo, qualche nodo, qualche traccia, forse.

Quando la si è vissuta, quando la si è amata, quando la si è subita, se ne rimane per sempre in prossimità, mai dentro e per questo si sente di non essere in grado di raccontarla.
È come il diavolo, per chi ci crede.
Chi ne è impossessato non lo sa, non ne è cosciente, ne è solo strumento e vive la manifestazione del possesso come naturale perché sono le sue braccia a muoversi, le sue gambe, i suoi occhi, la sua mente il cui controllore suggerisce naturalezza e volontarietà.
Chi ne guarda da fuori la possessione ha come unico fine quello di fermarla prima possibile perché le manifestazioni sono dure, sono violente, sono atroci, lo fa per liberare la posseduta o il posseduto ma ha come fine la immediata liberazione dalla manifestazione, da quella parte visibile così brutta, così scomoda da avere vicino, così dolorosa da guardare.
Non è quello.
Ana non è quello.
Ana è rapporto, non è alimentazione.
Non credete alle trasmissioni tv che dicono che è un disturbo dell’alimentazione, non lo è, non è vero.
Il disturbo dell’alimentazione di Ana è come la bava bianca del posseduto, un effetto, non la causa, un modo di manifestarsi agli occhi di chi è intorno, un favore che si fa a chi da fuori vuole sapere cosa succede.
Non te lo dicono.
Non te lo dicono perché non lo sanno, cosa succede dentro.
Non lo sanno perché in quel momento non sono in loro, sono possedute.

Ana è un nodo di quando avevi sei anni, un incidente di quando ne avevi dieci, uno sguardo di tuo padre, una mano di tuo zio sulla gamba, Ana è paura che ti facciano di nuovo male, che ti lascino di nuovo da sola in una stanza senza porte, che ti scompaia di nuovo la voce, che ti si allaghino di nuovo i polmoni, Ana è la paura di non ricordare le tabelline, è incapacità di memorizzare apprendimenti dai propri errori, è incapacità di crescere perché gli errori diventano ulteriori cause e non correzioni di rotta, sono mattoni uno sull’altro sempre più pesanti, non è alimentazione è paura, vera, viscerale, così profonda da non manifestarsi più esteriormente perché troppo lungo è il percorso neuronale che compie lo stimolo prima di arrivare ai recettori, parte tipo dieci anni prima, è dolore sordo a se stessi.

No, non ne ho sofferto.
L’ho amata, però.
Per anni.
Il senso di sconfitta che amare Ana ti schiaccia dentro è inimmaginabile, irraccontabile.
Si guarda per minuti, per giorni, per mesi, il tuo amore che si spegne lentamente o che si attorciglia su se stessa per il dolore di mille anni fa.
No, con gli amici non si parlava di questo, infatti.
Non si parla di questo con nessuno.
Solo con chi lo vive, se vuole, altrimenti si lascia perdere, gli altri non possono capire, nemmeno gli psicologi possono capire, loro quando hanno davanti Ana hanno davanti la sua parte docile, quando attacca non avvisa, non puoi prendere appuntamento, non ti scrive un rapporto da pubblicare, ti si sdraia davanti quando meno te lo aspetti, sul pavimento, e comincia a tremare con la gola strozzata dalla paura e tu puoi solo guardare e chiederti a cosa serva amare, a cosa serva davvero, ti chiedi, se non salva.
Anzi, peggiora.

Questa è la cosa più dura.
Amare Ana peggiora.